sabato 18 gennaio 2014

La Seconda Volta

La Seconda Volta

Data di pubblicazione: settembre 2012
Lunghezza: 6.460 parole
ISBN (Smashwords): 978-14-764-84693

Nato in un piccolo paese di provincia, lo "Scricciolo" era un bambino certamente piccolo e povero, ma era anche molto sveglio e attivo. Pur nelle difficoltà, tutto filava per il verso giusto, finchè non commise un grave errore. Imparata però la lezione, giurò che mai più avrebbe fatto uno sbaglio simile e si diede da fare in altro modo, diventando in breve tempo il boss del paese.

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Nel seguito del post potete leggere l'inizio del racconto. Buona lettura!


La Seconda Volta

Mia madre, fin dal momento del parto, mi aveva sempre chiamato "piccino" e in tale parola aveva racchiuso un universo d'amore quale solo una mamma può dare ad un figlio. Dopo il terzo anno di vita, cioè dopo che ebbi raggiunto un certo grado di indipendenza, mio padre aveva iniziato a rivolgersi a me chiamandomi "scricciolo": sebbene vi fosse un po' di risentimento nella voce ed una certa sfumatura di delusione nel tono, l'uomo, generosamente, riusciva a stemperare il tutto in un sentimento di clemenza.
Meno indulgenti erano gli altri che mi additavano come "il microbo". Questi 'altri' erano gli abitanti del paese in cui ero nato: una cittadina che racchiudeva nel suo centro storico, arroccato sul piccolo colle, molti secoli di storia immobile e che espandeva verso l'esterno ed il futuro i margini, sempre più indefiniti, della sua moderna periferia.
Non erano la statura minuta o la costituzione esile delle membra a farmi catalogare come "piccolo", ma piuttosto il languore dello sguardo, il luccicore madido di aspettative che guizzava nei grandi occhi neri, il segreto che veniva celato dietro le lunghe e folte ciglia.
Avevo sei, sette... forse otto anni, quando accadde ciò che per tutto il resto della mia vita avrei identificato come il mio primo "ricordo". A quell'epoca mi si poteva vedere spesso girovagare per le strade del paese. Sia in estate che in inverno avevo sempre il faccino nascosto da un berretto troppo grande per la mia testa: appariva evidente che era appartenuto ai miei fratelli maggiori; ora toccava a me crescerci dentro.
Ero un tipino sveglio, o almeno così credevo, anche se, stando a quello che mi hanno raccontato, parlavo poco. Forse proprio per questo mio carattere vitale ma introverso nessuno riusciva a comprendermi, neppure i bambini della mia stessa età. Giocavo quasi sempre da solo, lanciando sassi nel fiume che bagnava il lato est della periferia o vagabondando, apparentemente senza meta, per le vie su cui si affacciavano i negozi del paese.
Nonostante fossi considerato da tutti un po' strano, nessuno si era mai lamentato del mio modo di comportarmi. I più buoni di cuore sostenevano che ero un vero angelo e che era per questo che le bande di ragazzini non volevano giocare con me. Coloro i quali avevano il cuore indurito dal cinismo erano certi che ero un bambino astuto e che, semplicemente, non mi ero ancora fatto scoprire. Ma la vita della piccola città non ruotava attorno a me e per la maggior parte del tempo nessuno badava al tipo di vita che conducevo, neppure i miei genitori.
Prima che a qualcuno venga in mente di definire questo mio racconto come un esempio di esistenza deformata da una famiglia numerosa e disattenta, prima che si parli di vita non sufficientemente motivata da una società chiusa nella becera ignoranza della provincia, prima che i giudizi si formino in quelle menti così presuntuose da non aspettare la fine per dare un verdetto, devo pregare il lettore di aspettare per non giungere a conclusioni troppo affrettate.
Il primo ricordo che ho della mia infanzia corrisponde esattamente con la prima volta in cui dovetti fare i conti con il mio orgoglio; accadde di fronte ad una vasta platea ed è forse proprio per questo che ne rammento ogni particolare. Nessuno dei presenti, sebbene tra di essi vi fossero anche individui dotati di notevoli capacità intellettive, riuscì all'epoca a prevedere quanto profondamente quell'evento avrebbe segnato il mio destino.
Ma la storia non può essere narrata dalla sua conclusione. Il principio risale ad un giorno chiaro di un tiepido settembre.
Le scarpette consumate dal tempo e dai giochi, non solo miei ma anche dei miei fratelli, risuonavano di toni quasi metallici mentre correvo a perdifiato sul marciapiede di pietra. La lunga salita era una delle più antiche vie costruite nella zona, ampliata e migliorata con il passare degli anni e delle tecnologie; non aveva però mutato la sua funzione, quella cioè di collegare la riva del fiume al giardino situato proprio dietro al palazzo comunale, ora diventato parco pubblico.
Non ricordo con precisione l'ora ma rammento che ero completamente solo: doveva essere quella parte della mattina che volgeva ormai verso il pomeriggio, quando le donne erano tutte a casa ad ultimare la preparazione del pranzo e gli uomini non erano ancora ritornati dal lavoro.
La memoria raggiunge invece una definizione perfetta quando penso al dolore che avevo alle ginocchia: non a causa della pendenza vertiginosa della salita ma per le ferite che stillavano sangue. Ero scivolato su una roccia limacciosa, giù al fiume, ed avevo iniziato a correre per cercare di non pensare al male che mi ero fatto. Non mi ero pulito i tagli con l'acqua del fiume perché i ragazzi più grandi, che si nascondevano lì dai propri genitori per poter fumare in pace, avevano cominciato a ridere e a prendermi in giro. Non avevo neppure preso la via di casa in quanto già sapevo quello che sarebbe accaduto se fossi entrato in cucina in quelle condizioni: mia madre si sarebbe messa a piangere perché ero il più discolo dei suoi figli e mio padre mi avrebbe dato un ceffone perché non ero stato abbastanza attento da non ferirmi.
Così corsi via sanguinando finché non giunsi al giardino che dominava la collina. Lì, alla fontana, ripulii alla meglio le mie gambe sporche e mi dissetai. Come se quell'acqua fredda avesse poteri sconosciuti, mi dimenticai in fretta di tutto quello che era accaduto e incominciai a giocare sul prato ancora verde sul quale però cominciavano già ad adagiarsi le prime foglie ingiallite degli ippocastani.
I miei passatempi non avevano mai uno schema fisso: ero da solo e perciò non avevo bisogno di regole e di compromessi, indispensabili quando si gioca in gruppo. Potevo correre come un pazzo per qualche minuto e fermarmi di colpo, senza alcun motivo. Guardare per interminabili minuti il viavai delle operaie di fronte ad un formicaio e poi decidere di schiacciarne a decine sotto la suola delle scarpe.
[...]

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